Incontro con Mattia Civico

Categoria: News
6 Luglio 2010

Presidente della IV Commissione Legislativa del Consiglio Provinciale di Trento.

Lei è presidente della IV Commissione legislativa. Con questa Commissione nei mesi scorsi ha avuto l’opportunità di conoscere più da vicino la realtà di Anffas attraverso un incontro diretto con i responsabili dell’associazione e una visita alle strutture. Che idea si è fatto?

Devo dire per onestà e trasparenza che la mia conoscenza con Anffas, le famiglie, i responsabili dell’associazione risale ad un ampio periodo precedente alla mia attuale attività politica. Ero e sono un operatore sociale. Il valore che rappresenta Anffas e le persone che danno vita a questa realtà mi è ora però ancora più evidente: non c’è qualità totale dei servizi alle persone senza una profonda e reale partecipazione dei diretti interessati nel pensare ed erogare i servizi. Anffas in questo senso rappresenta una esperienza interessante che ci racconta della capacità delle famiglie di fare delle proprie esperienze, anche faticose e dolorose, patrimonio collettivo. Direi che Anffas è innanzitutto una esperienza di generosità, non solo verso i propri figli, ma verso i figli di tutti.

La visita della IV Commissione effettuata lo scorso anno ha messo in luce anche un altro aspetto fondamentale: il “sapere esperienziale” delle famiglie è coniugato, sorretto, accompagnato dalle competenze professionali di un personale qualificato ed appassionato. Chi svolge questa professione lo fa per una scelta che spesso va al di là dell’aspetto meramente lavorativo: chi opera nella relazione e attraverso di essa, non può evidentemente essere soltanto un ottimo tecnico (e questo deve esserlo), ma deve essere egli stesso uno strumento efficace.

Le persone diversamente abili sono immerse in un contesto ad alto tasso di affettività, di attenzione ai bisogni che vivono, di individualizzazione dell’intervento, di professionalità, vivono nella possibilità di esprimere al meglio la propria dimensione e la propria soggettività.

Famiglie, utenti ed operatori: nessuno può fare a meno dell’altro ed insieme, nel reciproco riconoscimento, vi è – così mi è parso – il cuore dell’azione di Anffas.

In questi mesi avete conosciuto direttamente altre realtà sociali che operano sul nostro territorio. Immagino avrà notato la ricchezza di proposte a favore delle persone con bisogni speciali. Qual è stata la richiesta o l’esigenza maggiore che le hanno fatto presente?

Il Trentino è una terra ricca di esperienze di solidarietà e di mutualità. Le comunità del nostro territorio hanno la cultura della coesione e del lavoro, esprimono la capacità di tradurre le difficoltà in opportunità, perché non sono comunità egoiste, ripiegate su se stesse. La nostra storia racconta di un territorio e di persone che hanno sempre anticipato le soluzioni nelle difficoltà. Un territorio e una comunità responsabile. Il cosiddetto “welfare di comunità” è proprio il riconoscimento di un modello che costruisce benessere sociale a partire dalla comunità, con la comunità, attraverso la comunità. In questo senso il “sociale” è un cantiere sempre aperto, in progettazione continua, attento alle esigenze che cambiano, che emergono. I progetti personali delle persone che vengono accolte, continuano ad evolvere e non possono essere dati per definitivi e così i servizi e gli spazi in cui i progetti e le persone crescono : vanno costantemente ripensati, adattati, aggiornati. Questa è una grande fatica, ma è anche una grande sfida.

Questo “cantiere sempre aperto” richiede necessariamente la presenza di una comunità aperta al cambiamento e capace di sostenerlo. È responsabilità collettiva e quindi anche della politica e dell’amministrazione: in questo senso il bisogno che ho incontrato più di frequente riguarda la necessità di politiche e di amministrazione flessibile ed attenta a sostenere le comunità in questo sforzo.

Qual è l’attenzione della Commissione che lei presiede nei confronti delle tematiche legate alle persone diversamente abili?

La Quarta Commissione è composta da consiglieri attenti e sensibili alle tematiche della diversa abilità. È un giudizio che esprimo in senso ampio e trasversale, al di là delle provenienze politiche. Certo: ogni forza politica ha una propria impostazione nella formulazione delle proposte, ma non ho mai incontrato chiusure o pregiudizi. Tutt’altro. Devo dire con soddisfazione che il primo sopralluogo che la commissione ha deciso di svolgere in questa legislatura è stato proprio presso le strutture di Anffas, per conoscere in maniera più diretta le attività, le persone e i luoghi. Non è raro che la commissione che presiedo intervenga su testi legislativi o prenda posizione per far presente il punto di vista delle famiglie che vivono una fatica in più. Anche in occasione della recente e discussa riforma della scuola, nell’ambito delle audizioni con il mondo degli insegnanti e delle famiglie, abbiamo ritenuto doveroso ascoltare e raccogliere le preoccupazioni espresse dalla vostra associazione in merito alla riorganizzazione del sistema formativo e sulle ricadute in termini di integrazione scolastica. Ma Anffas, insieme ai consorzi e alle realtà del Terzo settore, sarà ascoltata anche nell’ambito della riforma sanitaria, come soggetto importante che  vive direttamente la complessità dell’integrazione socio-sanitaria. L’attenzione mi sembra che ci sia e va di pari passo alla capacità del Terzo Settore e del Welfare in generale di elaborare una visione matura e competente.

Ha in mente dei modelli di riferimento per migliorare le politiche a favore delle persone diversamente abili?

Credo che la dimensione del “Dopo di Noi” ci debba vedere tutti maggiormente impegnati. I genitori e le famiglie hanno oggi il bisogno di sapere che i propri figli saranno accuditi e seguiti con attenzione anche nel futuro. Credo sia opportuno rafforzare l’impegno nella realizzazione di spazi residenziali per le molte persone con disabilità che nei prossimi dieci-quindici anni avranno bisogno di un intervento residenziale assistito. Tenendo conto che bisogni assistenziali diversi richiedono risposte diverse. Accanto alle necessarie strutture e agli alloggi protetti, dobbiamo pensare anche ad altre forme di residenzialità a diversi livelli di assistenza.

Già oggi osserviamo con attenzione e sosteniamo progetti volti a promuovere l’autonomia alloggiativa di alcune persone diversamente abili: penso agli alloggi domotici progettati e sperimentati con l’apporto dell’Università, del Terzo Settore e di Itea. Quella della tecnologia può essere una strada da percorrere per sostenere l’autonomia alloggiativa di alcune persone fragili. Ma credo che dobbiamo insieme pensare anche ad altri modelli di residenzialità. Quello per esempio di “condomini solidali” dove il patto di reciproco sostegno fra inquilini sia in grado di sostenere le autonomie possibili, potenziando anche l’istituto dell’amministrazione di sostegno e dell’affido degli adulti. Lo definirei un “abitare di comunità”, dove il singolo è sostenuto dal contesto ed è allo stesso tempo risorsa per tutti. Arricchire la filiera della residenzialità, per dare ad ognuno una risposta coerente con i bisogni di assistenza e con le proprie potenzialità.

Fin qui sulla residenzialità, che è la sfida centrale. altri ambiti che meritano attenzione?

Sul fronte dell’inserimento lavorativo sono convinto sia necessaria una riflessione: i criteri espressi nella legge 68/99 e il ruolo svolto dall’Agenzia del  Lavoro hanno bisogno di ulteriori strumenti e di un pensiero aggiornato per sostenere le comunità nel farsi carico responsabilmente delle persone che oggi ancora fanno fatica ad accedere al mondo del lavoro, nonostante le agevolazioni e i supporti previsti.

Il Terzo Settore esprime una competenza nella mediazione e nel supporto all’inserimento lavorativo che andrebbe maggiormente utilizzata e forse anche riconosciuta.

Dobbiamo offrire maggiori strumenti alle aziende che assumono persone con disabilità e contemporaneamente sono convinto che chi non assolve all’obbligo di assunzione andrebbe maggiormente chiamato a responsabilità. Le aziende che partecipano ad appalti pubblici dovrebbero essere valorizzate nella loro capacità di integrazione lavorativa, prevedendo per esempio la clausola sociale negli appalti.

Penso che andrebbe trovata maggiore armonia fra gli strumenti economici previsti dalla legge provinciale 7 del 1998 (che regola l’erogazione delle pensioni di invalidità) e lo status di lavoratore, affinché la perdita di benefici economici non sia un deterrente all’inserimento lavorativo.

Andrebbe sostenuta maggiormente la mobilità delle persone con disabilità, anche oltre i vincoli previsti dal trasporto individualizzato, potenziando il servizio Muoversi, esempio virtuoso da estendere ed approfondire.

In riferimento alle attività di Anffas Trentino come valuta il disegno di integrazione socio sanitaria che emerge dal ddl 80. Quali sono le sue osservazioni?

L’integrazione socio sanitaria riguarda molte attività che Anffas promuove: i servizi residenziali o i centri diurni, i servizi domiciliari, il Paese di Oz, Casa Serena. Spesso il confine tra un intervento sanitario o sociale non è così nettamente definibile e dunque è importante che questi interventi abbiamo un riferimento unitario. Realizzare e organizzare l’integrazione socio sanitaria è una sfida importante, che condivido pienamente: con attenzione estrema perché andiamo a toccare “muri portanti” del nostro sistema socio assistenziale. Pongo una questione di metodo che ha però a che fare strettamente con la qualità dei servizi che andiamo a costruire. E la qualità di un servizio dipende molto dalla cultura che orienta e sostiene quello stesso servizio. Non avremo servizi socio sanitari di qualità se non integriamo le culture di riferimento. Sanità e Sociale insieme, senza il predominio di uno sull’altro, ma con la piena responsabilizzazione di entrambi. Una “presa in carico” dei bisogni più puntuale ed unitaria.

Come realizzare questa “presa in carico unitaria”?

Il Welfare e il Terzo Settore hanno ampiamente dimostrato la capacità di interpretare la “presa in carico” in senso ampio e pieno, spesso al di là dei limiti posti dalle risorse economiche e dalla sostenibilità della spesa. Andare oltre i livelli essenziali, ascoltare i bisogni nella loro interezza, progettando le possibili risposte anche mobilitando le risorse nella comunità, l’associazionismo, il volontariato, sostenendo le famiglie. Questa cultura di comunità deve essere presente e  centrale nella progettazione di servizi integrati. Lo prevede la riforma del welfare approvata nella passata legislatura, lo prevede la riforma istituzionale che conferisce alle comunità le competenze in materia sociale. Comunità responsabili e comunità competenti. Il tema dal mio punto di vista è sempre questo.

Il modello proposto dalla giunta nel ddl 80 non tiene conto in maniera equilibrata di queste culture, assegnando da un lato un ruolo sovradimensionato alla Azienda Sanitaria e dall’altro indebolendo il Sociale, abrogando l’articolo 41 della LP13/2007. I luoghi della progettazione dei servizi integrati (come il comitato per il coordinamento dell’integrazione e i punti unici di accesso), devono essere abitati da entrambe le culture che si contaminano e che – appunto- si integrano. Equilibrio vuol dire che sanità e sociale, azienda e comunità condividono con pieno riconoscimento di ognuna di queste parti, una nuova unità. Questa preoccupazione, anche alla luce delle audizioni che stiamo svolgendo in commissione, mi pare ampiamente condivisa dai mondi del Terzo Settore, dal Consorzio dei Comuni,  dai sindacati. Di questo abbiamo negli ultimi tre mesi a lungo discusso con l’assessore e devo dire che recentemente ho registrato con profonda soddisfazione la disponibilità a riequilibrare il disegno di integrazione socio sanitaria. Non per una rivendicazione di un comparto che si sentiva escluso, ma per una chiamata alla responsabilità e al contributo di tutti.

Quali sono i suoi suggerimenti per migliorare questa proposta?

Mi pare necessario partire dalla riforma del welfare e dalla riforma istituzionale approvate nella passata legislatura: queste due importanti riforme, ancora non pienamente attuate (o per mancanza di regolamenti attuativi o per una ancora non realizzazione degli organismi istituzionali), attribuiscono alla comunità la competenza nella organizzazione dei servizi sociali. È un passaggio fondamentale questo:  lo sforzo del legislatore e di tutte le realtà che hanno partecipato alla definizione di questa norma hanno operato una scelta che credo coraggiosa ed opportuna. Hanno in fondo definito che per elaborare risposte coerenti ai bisogni, dobbiamo interpellare e responsabilizzare la comunità in cui questi bisogni vengono espressi. Si è riconosciuto che il pensiero e la progettazione non vanno centralizzati, ma collocati nella comunità e nei territori. Questo metodo coinvolge gli amministratori locali, le realtà del terzo settore, le strutture e risorse dei territori, i distretti sanitari e la rete ospedaliera, i medici e i pediatri di famiglia, i servizi socio assistenziali, eccetera. Ogni risorsa deve essere riconosciuta e chiamata a responsabilità.

Come realizzare questo complesso disegno, per avere servizi di qualità?

Definendo puntualmente luoghi e responsabilità, affidando a questi luoghi e quelle responsabilità i fondi necessari per realizzare l’integrazione. Nel rispetto e valorizzazione della cultura sanitaria e sociale insieme. Proponiamo dunque di riconoscere a sanità e sociale la comune responsabilità e possibilità di pensare, progettare ed erogare i servizi ad alta integrazione. Contemporaneamente è necessario che l’Azienda Sanitaria si confronti con la dimensione territoriale interagendo con essa, nel rispetto delle responsabilità attribuite alla Comunità di valle. È necessario che il “Punto unico di Accesso” opportunamente previsto dall’assessore nel suo disegno di legge non sia espressione dell’Azienda Sanitaria e sotto il controllo distretto del direttore per l’integrazione socio-sanitaria, ma sia l’espressione concreta ed operativa di una integrazione delle culture e delle prassi che avviene a monte: nel tavolo per il coordinamento dell’integrazione socio sanitaria e a livello di comunità di valle. Dobbiamo resistere alla tentazione di aziendalizzare per semplificare o per evitare la fatica della progettazione condivisa: non basta fissare gli obiettivi, individuare la responsabilità in una unica persona e affidare a questa la gestione dei finanziamenti. Il welfare di comunità funziona in maniera più complessa ed equilibrata. Ed è con la modalità della co-progettazione e della corresponsabilizzazione che il sistema regge. Il resto rischia di non costruire servizi integrati e capaci di una piena presa in carico. e di produrre un innalzamento della spesa e una abbassamenti della qualità. Dobbiamo recuperare la profonda convinzione e la fiducia che le comunità, sostenute, ascoltate e promosse, sono a loro volta capace di sostenere, ascoltare e promuovere anche chi è più fragile.